La malattia di Parkinson

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La malattia di Parkinson è una malattia neurodegenerativa che coinvolge alcune strutture cerebrali deputate al controllo dei movimenti (sostanza nera, gangli della base). Si ha in particolare un precoce invecchiamento dei neuroni che producono Dopamina.

Si stima che in Italia vi siano circa 230000 persone affette da questa patologia, di cui circa il 5% con età inferiore ai 50 aa mentre il 70% ha un’età superiore ai 65 aa. L’età di esordio dei sintomi è tipicamente intorno ai 60 aa.

I sintomi principali sono bradicinesia, cioè lentezza nei movimenti, rigidità e tremore a riposo. Si associano inoltre disturbi della marcia (a piccoli passi, “piedi incollati al pavimento”), alterazioni posturali (flessione in avanti o laterale del busto), inespressività del viso, alterazioni della voce (più bassa) e della grafia (più piccola e lenta).

Oramai è ben noto che oltre ai sintomi motori si affiancano i cosiddetti sintomi non motori della malattia di Parkinson, che includono alterazioni della pressione arteriosa, stitichezza e nausea, eccessiva salivazione, allucinazioni, depressione, alterazioni del gusto e dell’olfatto, formicolii o dolori non spiegati da altri fattori, incontinenza urinaria, disturbi di memoria.

Si deve tener ben presente però che, proprio per la grande varietà di sintomi descritta, ogni paziente presenta una forma di malattia diversa, con un’evoluzione propria, difficilmente prevedibile al momento della diagnosi.

 

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La diagnosi e la visita neurologica

La diagnosi si basa essenzialmente sulla visita neurologica, che andrà a ricercare i segni caratteristici della malattia. Di supporto possono essere esami del sangue e TC o RM del cervello, per escludere altre patologie che potrebbero mimare i sintomi di una malattia di Parkinson in fase iniziale. In casi dubbi si può eseguire un esame scintigrafico, il DaTscan, che quantifica i neuroni dopaminergici nei gangli della base. Ulteriore criterio di supporto alla diagnosi è la risposta alla terapia dopaminergica.

La terapia del Parkinson prevede farmaci che portano a un aumento della dopamina disponibile per i gangli della base. Esistono farmaci che aiutano a risparmiare la dopamina prodotta dall’organismo, come gli inibitori MAO-B, enzimi che degradano la dopamina (Selegilina, Rasagilina, Safinamide), farmaci che agiscono sui recettori della dopamina potenziandone la risposta, i dopaminoagonisti (Pramipexolo, Ropinirolo, Rotigotina) e la Levo-Dopa, un precursore della dopamina che verrà poi convertita a livello cerebrale (LevoDopa/Benserazide, LevoDopa/Carbidopa, Melevodopa/Carbidopa, Levodopa/Carbidopa/Entacapone). Inoltre diversi altri farmaci sono utilizzati a seconda della presentazione clinica di ogni caso.

Inoltre sono disponibili le cosiddette “terapie della fase avanzata”, terapie indicate quando il controllo dei sintomi non è più soddisfacente con le terapie classiche; esse consistono in infusori sottocutanei di dopaminoagonista (apomorfina), infusori digiunali di levodopa gel e stimolazione cerebrale profonda, che prevede un intervento neurochirurgico con il posizionamento di elettrodi stimolanti alcune regioni specifiche del cervello. Il ricorso a tali terapie è riservato a una quota selezionata di pazienti, dopo attenta valutazione.

Infine si deve tener presente l’importanza della ricerca e la grande quantità di farmaci in sperimentazione, che comprendono sia nuove molecole che dovrebbero rendere più facile la gestione della terapia convenzionale, sia terapie che mirano al rallentamento o arresto della degenerazione cerebrale, come i “vaccini” e le cellule staminali.

Affianco alla terapia farmacologica è importante ricordare l’importanza della terapia fisica (fisiokinesiterapia, attività fisica controllata) e del supporto psicologico.

 

Dr.ssa Giulia Di Lazzaro
Neurologa

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